venerdì 24 febbraio 2017

Intervista a Thomas Melis, autore di "A un passo dalla vita"



Qualche settimana fa ho recensito "A un passo dalla vita", romanzo di Thomas Melis. Ho avuto l'occasione di scambiare quattro chiacchiere con l'autore per approfondire alcuni temi della storia, toccando problemi legati al mondo in cui viviamo oggi, dalla crisi economica al degrado delle periferie delle città. Un romanzo impegnativo, non banale, ma attuale. Buona lettura!

“A un passo dalla vita” è il romanzo d’esordio: chi è Thomas Melis? Com’è nato questo libro?
Sono una persona che ha sempre amato i libri e la scrittura in generale. Ho affrontato un percorso di studi accademici focalizzato sulle discipline umanistiche e sulle scienze sociali. È stato quindi uno sbocco quasi naturale per me quello di lavorare a un romanzo. Ho avuto alla fine la fortuna di vederlo pubblicato.
Il libro è nato da una mia analisi della realtà. Dall’osservare la crisi si di valori, prima che economica, che ha devastato ciò che è stato l’Occidente dal Dopoguerra fino all’autunno del 2008, al crollo di Lehman Brothers. Una crisi che in Italia ha avuto un impatto più forte che altrove, combinandosi a una deriva morale iniziata durante gli anni ’80 ed esplosa sotto il berlusconismo. Il tema di fondo ha voluto essere quello di rappresentare, con un racconto, l’idea tutta italiana della conquista del successo e della ricchezza attraverso la furbizia, dell’importanza di essere furbi per raggiungere i propri scopi, nonostante l’immoralità di questo tipo di filosofia di vita e i danni che essa può generare alla collettività. Questo imperativo, fortissimo anche oggi, è stato poi inserito in una storia di narcotraffico che ben si prestava all’analisi di un’altra tipologia di problemi presente nelle nostre città e spesso nascosta sotto il tappeto. 

Il romanzo affronta molti e diversi temi sociali: droga, lontananza dalla terra d’origine, voglia di riscatto, drammi familiari e non solo. È un romanzo per tutti?
È un romanzo adatto a lettori adulti. Le tematiche non sono semplici e in certi casi possono creare qualche inquietudine, lo sconsiglio quindi ai lettori più giovani. Detto questo, credo che chiunque possa riconoscersi in alcuni argomenti trattati. Escludendo i più estremi, penso che molti abbiano vissuto l’esperienza dell’emigrazione o si siano trovati a figurare come una statistica sul precariato. Il romanzo tratta temi sociali, appunto, e ritengo che questi rispecchino, in piccolo, quanto la nostra attuale condizione collettiva stia rappresentando esteriormente.

La figura di Calisto può sembrare, almeno inizialmente, quella di un giovane arrivista senza scrupoli, pronto a tutto e abbagliato dal lusso e dagli eccessi; un esempio negativo. Nel corso della storia, gli eventi lo porteranno a prendere delle scelte e a far emergere altri aspetti della sua personalità. Come hai plasmato la figura del giovane universitario?
I personaggi sono stati creati con la precisa volontà di sfuggire alla tipica suddivisione netta tra bene e male, buono/cattivo. Quella delle serie televisive RAI, per capirci. Non ci sono eroi e non ci sono dannati nelle pagine di A un passo dalla vita, perché nella realtà questa separazione manichea non esiste. Calisto è quindi indubbiamente un esempio negativo, ma ha in sé degli aspetti più complessi che ne mostrano le caratteristiche opposte e gli restituiscono una dimensione meno oscura, sia in ragione delle scelte che (forse) compirà, sia considerato il contesto in cui questo personaggio si muove.

La maggior parte dei dialoghi, soprattutto tra Calisto, Secco e Tamagotchi, sono in dialetto e, probabilmente, non comprensibili per tutti. Come mai la scelta di marcare questo aspetto? E, domanda in qualche modo legata, perché la decisione della provenienza meridionale di diversi personaggi che cercano fortuna al nord?
La scelta di affrontare in questo modo i dialoghi è stata dettata da una serie di influenze letterarie che hanno plasmato il mio modo di intendere la narrazione. Se già in passato, per esempio con Pasolini, l’utilizzo di un registro vernacolare e gergale è stato un modo per avvicinare il lettore alla dimensione fisica e sociale della storia, negli ultimi anni un numero importante di autori italiani (ma non solo) di grandissima qualità – su tutti Giancarlo De Cataldo e il Collettivo Wu Ming – ha proseguito a produrre narrativa in questo senso. Lo stesso Roberto Saviano ha utilizzato questo accorgimento nella sua ultima opera. Per quanto mi riguarda, al di là delle influenze, è stata la volontà di infondere autenticità ai dialoghi a spingermi in quella direzione.
Venendo alla provenienza meridionale dei personaggi, rappresenta una precisa scelta legata alla realtà socioeconomica del sud Italia. Parliamoci chiaro, il Meridione è la zona più povera dell’Europa Occidentale, con indicatori sociali inferiori alla maggior parte dei Paesi dell’ex Cortina di Ferro. La disoccupazione media è al doppio del livello nazionale, e quella giovanile supera in molte aree il 50%. Se si escludono le zone metropolitane principali – ma succede anche in quelle – da anni nel Meridione è in atto una fuga della gioventù verso un futuro, non dico migliore ma almeno possibile, che ricorda quella degli anni 50 e 60 del secolo scorso. Il nord Italia è appunto una delle zone di destinazione di questo fenomeno.
 
Mi hanno piacevolmente sorpreso le digressioni su aspetti economici e sulla vita universitaria di Calisto, che rimane sempre in secondo piano. Le dettagliate argomentazioni del professor Vannucci e le riflessioni di Calisto sono frutto di precedenti studi dell’autore?
Come ho detto in precedenza il mio percorso accademico si è sviluppato nel settore delle discipline umanistiche e delle scienze sociali. Mi sono laureato all’Università di Firenze in Studi Storici, nella facoltà di Lettere e Filosofia, e ho proseguito all’Università di Bologna, seguendo un master in Relazioni Internazionali a Scienze Politiche. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo avevo quindi un background accademico abbastanza solido da permettermi di avventurarmi in quel campo. Oltre gli studi, un interesse personale verso quel genere di tematica mi ha portato ad approfondire, e ha contribuito ad arricchire la mia preparazione al di là della successiva idea di utilizzarla in un romanzo come poi è avvenuto.

I luoghi e gli eventi descritti nel romanzo abbracciano un ampio spettro della realtà: dai locali scintillanti del Platinum e del Nabucco, alla periferia controllata dagli albanesi, ai rave in capannoni abbandonati e affollati da ragazzi di ogni età, alle campagne desolate e tattiche. In un’unica città coesistono condizioni completamente differenti. È così che vedi la società attuale?
Beh, credo sia una realtà oggettiva che prescinda il mio modo di mostrare le cose. La condizione liquida della nostra società si riflette anche nelle sue forme geografiche e nell’organizzazione che autonomamente assumono gli spazi fisici.  Le nostre città hanno un’anima architettonica medievale/rinascimentale che assume consistenza nella grandiosità dei monumenti e degli edifici. Questi spazi originari hanno a loro volta accolto le attività socioeconomiche più avanzate ed eleganti - locali, negozi, uffici, banche – trasformando le periferie, almeno quelle più popolari, in quartieri dormitorio in cui la bellezza antica risulta totalmente sacrificata a una razionalizzazione deumanizzante degli spazi.  A tale processo corrisponde una ghettizzazione, per classi, delle persone che abitano queste aree. Un fenomeno che prima riguardava i meridionali e ora si è decisamente focalizzato sugli stranieri. In questi luoghi la nostra società  nasconde il disagio, o gran parte di esso, trasformandolo in degrado: ciò che non può avere cittadinanza nei parchi giochi per turisti e per cittadini facoltosi che sono i centri storici. È qui che il racket della prostituzione si mostra quando scende il sole. È qui che le piazze di spaccio assumono organizzazioni aziendali. Allo stesso tempo è qui che la protesta contro questo modo di intendere la città trova i suoi luoghi: i centri sociali, gli spazi occupati, le manifestazioni esterne al circuito commerciale/capitalistico che regge l’economia legale e quella grigia.
Perché la scelta di Firenze che, però, non viene mai nominata chiaramente? È abbastanza inusuale come scenario per un susseguirsi di vicende così dinamiche e controverse.

Firenze è stata scelta proprio perché rappresenta lo scenario perfetto per mettere in luce la condizione e le contraddizioni di cui ho parlato. La “bomboniera”, come sarcasticamente alcuni fiorentini chiamano i 505 ettari di quello che è uno dei centri storici più belli del mondo, è sempre tirata a lucido, anche se in alcune aree il disagio che ribolle sotto la superficie finisce per mostrarsi. In periferia invece, alle Piagge, a Rifredi, alla Gavinana, lo spettacolo non è lo stesso, e quello che in centro viene nascosto sotto il tappeto emerge in tutta la sua negatività. Firenze inoltre attira un flusso imponente di  immigrazione, dal meridione e dall’estero, e anche da questo punto di vista si prestava ai miei obiettivi narrativi.
La città non viene mai nominata perché A un passo dalla vita non è un romanzo su Firenze. È un romanzo ambientato a Firenze, ma i fatti narrati nelle sue pagine avrebbero potuto accadere in qualsiasi altra città del centro nord. Dico centro nord perché al sud a queste problematiche se ne sarebbero aggiunte altre ancora più complesse.

Leggendo l’avvincente romanzo, è inevitabile ricostruire a mente ogni evento e creare il proprio film, grazie alle descrizioni dettagliate e al susseguirsi delle azioni e allo stile incisivo ed estremamente scorrevole. Mi sento di dire che ne uscirebbe una bella trasposizione cinematografica. Hai pensato a questa possibilità? C’è, nel romanzo, qualche riferimento a film o serie tv?
Ho fantasticato su come avrebbe potuto essere realizzata una trasposizione cinematografica/seriale del romanzo ma non ho mai preso in considerazione questa eventualità, anche perché non possiedo i contatti necessari a renderla possibile. Sarebbe qualcosa di fantastico se mai accadesse e parlando da questo punto di vista mi viene facile rispondere alla domanda successiva: il libro è pieno di riferimenti a serie TV, film, musica e anche libri classici del genere. Tra le righe c’è proprio un meta-testo che invia segnali al lettore attento. Il Commissario Cattani, per esempio, è quello de La Piovra, storica serie tv su Cosa Nostra prodotta negli anni ‘80. Calisto fa riferimento al film Slevin, nella parte finale della storia, quando immagina una mossa Kansas City per volgere a suo vantaggio le circostanze. Oppure i Patriarca, sono una famiglia criminale che appare in un racconto di Giancarlo De Cataldo. Il numero 187, più volte menzionato, è quello che i rapper statunitensi utilizzano per indicare l’omicidio, mutuando il codice in uso nelle radio della polizia. Holli è un riferimento alla Holly di Colazione da Tiffany. Ce ne sarebbero degli altri ma non posso dire di più perché finirei per svelare troppo della trama.

Nuovi romanzi nel cassetto e progetti futuri?
Attualmente sto lavorando a un romanzo ambientato in Sardegna, la mia bellissima terra natale. Non so quando potrà uscire ma posso anticipare che rientrerà nel genere noir/crime, così come A un passo dalla vita e il suo spin off Platino Blindato. Sarà una storia di malavita, cruda e malinconica, che guarderà al presente, alla società contemporanea dell’Isola, a una serie di problematiche che non sembrano volerla abbandonare, attraverso la lente di un antico codice sociale che per secoli ha regolato l’istituto della vendetta. Non sarà semplice ma mi auguro che possa venir fuori un buon lavoro. Poi chissà, magari in futuro vedrà la luce anche un seguito di  A un passo dalla vita… ma per quello è ancora troppo presto.

Grazie per aver risposto alle domande e in bocca al lupo!
Crepi!  Grazie a voi di avermi voluto ospitare e di avermi fatto queste domande approfondite e interessanti. Vi lascio con un saluto ai lettori del blog.

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Sher

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